STORIA DI UN OBLIO

Socetà per Attori e Accademia Perduta Romagna Teatri

 

 

 

in collaborazione con

di Laurent Mauvignier regia di Roberto Andò. Con Vincenzo Pirrotta

IL RACCONTO

Un uomo entra in un supermercato all’interno di un grande centro commerciale di una città francese. Ruba una lattina di birra e viene bloccato da quattro addetti alla sicurezza che lo trascinano nel magazzino e lo ammazzano di botte. Questo scarno fatto di cronaca è raccontato da Laurent Mauvignier in un lungo racconto, una sola frase che ricostruisce la mezz’ora in cui è insensatamente raccolta la tragica fine di un uomo. Teso quasi allo spasimo nel resoconto minuzioso di una morte assurda, il flusso di parole raduna impercettibilmente tutti i temi cari a Mauvignier. E torna così il suo sguardo purissimo su un universo di “umili” che la scrittura rigorosissima accoglie senza una briciola di retorica, senza un’ombra di furbizia. Raro, oggi, nel trionfo dei format narrativi nei quali la realtà diventa un reality, uno stile così impeccabilmente morale, una prosa così pudica e vera. “Quel che io chiamo oblio” è il titolo originale di questo monologo, scritto in un’unica frase, senza un vero inizio, senza una vera fine, senza punteggiatura ma con una prosa perfetta che in un crescendo emozionante risveglia in noi sentimenti di pietà e indignazione.

Messo in scena nel 2012 al Teatro della Comédie-Française, “Quel che io chiamo oblio” diviene spettacolo anche in Italia. A dare voce al testo un attore di rara sensibilità e potenza come Vincenzo Pirrotta, guidato dalla regia di un maestro del teatro e del cinema, Roberto Andò.

L’AUTORE

Nato a Tours nel 1967, Laurent Mauvignier è uno degli scrittori francesi più apprezzati dal pubblico e dalla critica. Ottenuta la laurea in arti plastiche presso la Scuola delle Belle Arti nel 1991, nello stesso anno esordisce con il suo primo romanzo per le Éditions de Minuit. Ha all’attivo sette romanzi, tra i quali Apprendre à finir (Les Éditions de Minuit, 2000; Prix Wepler e Prix Inter 2001) e Dans la foule (Les Éditions de Minuit, 2006; Prix Fnac). Con Feltrinelli ha pubblicato Degli uomini (2010), Storia di un oblio (2012; poi rappresentato al Teatro della Comédie-Française nell’aprile del 2012), Intorno al mondo (2016; Premio Bottari Lattes 2017) e Continuare (2018).

LE NOTE DI REGIA

Due anni fa ho letto il testo di Laurent Mauvignier e ho pensato subito che era scritto in una lingua vocata al teatro. Storia di un oblio è un canto a più voci, ma è concepito per una sola voce. Un canto che Vincenzo Pirrotta intona a nome di ognuno di noi, conducendoci in quella zona dolorosa e opaca in cui ogni essere umano è destinato a sparire e a essere dimenticato.

La scrittura di Mauvignier circoscrive luoghi indicibili dell’esperienza, quei luoghi della memoria o della coscienza che resistono alle parole. A questa resistenza Mauvignier contrappone l’esattezza della parola, il suo potere evocativo e catartico.

Mi è sembrato che Storia di un oblio fosse un testo che oggi potesse trovare un senso speciale presso il pubblico teatrale. Dopotutto il teatro è da sempre racconto di una esperienza, anche della più oscura e irraccontabile, come appunto è oscura e irraccontabile l’incongrua uccisione di un uomo da parte di quattro vigilanti e il tentativo di restituirle un senso da parte di chi resta.

La parola di Mauvignier sfida l’indulgenza dell’autocoscienza e la retorica sentimentalistica della cronaca a buon mercato, riuscendo a dar voce alla sofferenza e alla solitudine che segna la vita delle persone.  

Roberto Andò

LA CRITICA LETTERARIA

 […] Breve e intensissimo, Storia di un oblio è piuttosto un récit che un racconto e si presta a una lettura da teatro di narrazione. Spostandosi tra più punti di vista, compreso quello della vittima, l’autore evoca un comune caso di pestaggio, alle porte di un supermercato, di quattro vigilanti a danno di un giovane marginale che vi ha rubato e bevuto una birra.

Il giovane è morto, per una lattina di birra si può morire. “… alla polizia… alle mogli, agli amici, alla famiglia… hanno ripetuto che non hanno picchiato così forte, hanno colpito perché il tipo li insultava, era lui che menava e gridava e parleranno di un coltello che nessuno troverà mai…”.

Questo bellissimo monologo a più voci colpisce particolarmente quando al suo centro ci sono i quattro vigilanti, giovani come la vittima e che avrebbero potuto esserne, chissà, perfino amici. Nulla di eccezionale, dice l’autore, perché tutto è eccezionale nel nostro mondo brutale, anche se preferiamo fingere di non saperlo, per sopravvivere.

Internazionale • Goffredo Fofi

[…] Struggente e illuminante dalla prima all’ultima parola, l’unico modo per affrontarlo è sapere che non si deve semplicemente leggerlo, si deve in un certo senso recitarlo da attori protagonisti, come fossimo noi stessi ad essere lì a parlare con la voce rotta dal pianto, così che possiamo fare nostra una lezione importante.

Ogni giorno, ad ogni passo destini e storie si incrociano, sfere di vita si intersecano per una frazione impercettibile e forse solo per quella in un’intera esistenza; in quelle microscopiche intersezioni, gli unici elementi in comune sono lo spazio ed il tempo ed allora nulla, per nessun motivo, può consentire ad alcuno di sentirsi in diritto di giudicare l’intero contenuto della sfera di un altro, solo per questa misera ed irrilevante condivisione.

Come si può giudicare gli altri, senza contemporaneamente giudicare se stessi, noi che siamo tutti esseri umani?

L’Amletico • Fabrizio Risa

 […] È questa la forza e la condanna della voce che continua a fluire: non ci lascia rassegnati, bensì storditi, quasi estasiati. Ci taglia fuori dalla comunicazione, ma ci invita a riconoscere i contorni della miseria umana. Come un coro tragico, ci inchioda alla testimonianza intima e muta di una verità che non è mai pronunciata. Mostra mano forte laddove dominano l’incertezza e la casualità (tutti quei “chissà” a cui anch’essa deve piegarsi), ma infine ci mostra come tutto questo parlare, questo rincorrersi di domande, esclamazioni e ipotesi non è che un modo per coprire quel silenzio che è della morte e che, infranto, rischierebbe di far deflagrare la disperazione.

È chiaro allora che parlare non può aiutare a trovare una spiegazione, ma serve a non crollare di fronte all’assurdo che è del male e della morte. Così come della vita. Serve al fratello dell’uomo ucciso, ma serve anche a chi parla: serve a tenere teso un filo che lega a quell’istante in cui tutto stava accadendo, in cui la tragedia era annunciata, ma non si era ancora consumata, in cui l’uomo sapeva di stare per morire, ma era ancora vivo. Come figlio, come fratello, come uomo.

Tutto è teso verso una parola, che si staglia nella sua tragica potenza: pronunciarla darebbe sollievo alla ragione, forse, ma decreterebbe una fine, la sentenza di una morte, e l’origine di un dolore immedicabile. Quello dell’oblio, che coincide con il silenzio. Chi ama non si sente pronto a questo e affronta l’impossibile sfida di coprire la distanza tra la vita e la morte, tra il dolore e la sua remissione. La voce continua a parlare e affronta l’irreversibilità di un destino ormai scritto: perché il suo silenzio è l’ultima cosa che gli appartiene.

La Balena Bianca • Giacomo Racci

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