MAR DEL PLATA

Società per Attori e Accademia Perduta

TitoloGLI “ANGELI DEL RUGBY” CHE SFIDARONO IL REGIME ARGENTINO

di Claudio Fava

con
Claudio Casadio, Giovanni Anzaldo, Fabio Bussotti
Andrea Paolotti, Tito Vittori
e con (in ordine alfabetico)
Edoardo Frullini, Fiorenzo Lo Presti, Giorgia Palmucci
Alessandro Patregnani, Guglielmo Poggi

scene Alessandro Chiti costumi Sabrina Chiocchio disegno luci Umile Vainieri

regia Giuseppe Marini

 

Note dell’autore

La prima volta che andai in Argentina la memoria di molte cose accadute era ancora intatta. Cose accadute laggiù, a Buenos Aires, dove la storia si era fermata su quell’elenco interminabile di nomi cancellati dalla vita e dal lutto, desaparecidos, ammazzati senza nemmeno il diritto a portarsi la propria morte addosso.
Ma anche cose accadute quaggiù, in Italia, dove un’altra guerra e un altro nemico che non facevano prigionieri s’erano portati via, assieme a tanti altri, anche mio padre.
Mi era sembrato un viaggio necessario: imparare che nessun luogo è il centro del mondo. Si moriva in Argentina come in Sicilia perché una banda di carogne regolava in questo modo i propri conti con i dissidenti. Pensarla storta, fuori dal coro, era un peccato imperdonabile. A Buenos Aires come a Catania. Negli anni ho imparato a raccontare quei morti con le parole dei vivi, le madri di Plaza de Mayo, le vedove di via d’Amelio… Ho provato a immaginare com’erano vissuti e perché avevano fatto quello che scelsero di fare. Non serviva a consolarsi ma a capire che dietro ogni violenza, a Buenos Aires come a Palermo, non c’era mai fatalità ma un pensiero malato, l’osceno sentimento del potere, l’avidità, il desiderio di impunità, la menzogna… In questo, Jorge Rafael Videla e Nitto Santapaola si rassomigliano. E si rassomigliano anche i loro morti. I ragazzi di Mar del Plata mi sono venuti incontro così, quasi per caso. Tutti morti, un solo sopravvissuto: Raul. Non aveva mai raccontato la sua storia. Nemmeno quando il regime dei militari era crollato come un castello di carte. Essere rimasti vivi, sopravvissuti al male, è sempre un peso insopportabile, il segno di una colpa che non esiste ma che ti covi dentro come un’ulcera. Succedeva agli scampati di Auschwitz, successe anche ai superstiti della mattanza argentina. Ho provato a immaginare i pensieri e i gesti di quei ragazzi che scelsero di restare e di morire. Ho cercato di riannodare i fili invisibili che legano vite lontane tra loro: i giovani agenti di Paolo Borsellino che rinunciano alle ferie per far da scorta al loro giudice, i giovani rugbisti di Mar del Plata che rinunciano a trovare rifugio in Francia pur di giocarsi fino all’ultima partita il loro campionato… II nome di Raul, il sopravvissuto, l’ho conservato. Gli altri, carnefici e vittime, li ho ribattezzati: volevo che ciascuno di loro portasse in questo teatro qualcosa in più della propria storia, qualcosa in più della propria morte. Perché alla fine poco importa che quei ragazzi fossero argentini o siciliani. Importa come vissero. E come seppero dire di no.

Claudio Fava

GLI “ANGELI” DEL RUGBY

Ci sono storie che hanno il sapore dell’incredibile. Storie di sport, che si intrecciano con la vita quoti-diana. Storie di ragazzi che diventano uomini troppo velocemente, che spariscono nel nulla senza un apparente motivo.
Mentre siamo qui ad appassionarci per la nostra nazionale, ecco che la palla ovale ci mette di fronte ad una storia di trentacinque anni fa, portata alla luce dal giornalista scrittore Claudio Fava nel suo ultimo romanzo “Mar del Plata”.
Siamo in Argentina nel periodo a cavallo tra il 1976 e il 1981, quello della sanguinosa dittatura del generale Videla, quello dei desaparecidos. La nostra storia accade proprio nel 1978 anno in cui il mondo era distratto dai mondiali di calcio giocati proprio in terra argentina. Protagonista del racconto è il La Plata Rugby Club, una squadra di giovani che lottano e amano quella palla ovale, perché “nel rugby, come nella vita, contano il fisico, il cuore, l’intelligenza e la voglia di resistere, uniti, lottando”. Una squadra che vince e che comincia a farsi conoscere.
Era un venerdì santo quando fu trovato il corpo senza vita di Hernan Francisco Roca detto “Mono”, il mediano di mischia. Le mani legate dietro alla schiena, gli occhi bendati, crivellato ventuno colpi di arma di fuoco. La domenica successiva i suoi compagni chiedono un minuto di silenzio prima della partita. E lì avviene qualcosa di straordinario. Scrive Claudio Fava:
…perché un minuto è poco, poco per il Mono, poco per quella morte di merda […] No, un minuto non basta, ne serve un altro, e un altro ancora, e intanto tutti fermi, incatenati, impegnati a dilatare quel tempo, a renderlo lungo come la vita che toccava al Mono e che invece gli hanno strappato, aveva 17 anni, pensate che ci basti un minuto? Ne passano cinque. Poi sei. Tanto nessuno ha fretta di fare, nessuno ha fretta di dimenticare. Otto minuti. Nove. Dieci. Dieci minuti durò quel silenzio”.
Da quel momento cambia tutto. La dittatura non fa sconti, questo affronto non va perdonato, quella semplice squadra di rugby ha osato sfidare i militari. Uno dopo l’altro i giocatori spariscono: ma per ogni giocatore ucciso, un ragazzino del vivaio viene promosso titolare. Nonostante tutto i ragazzi del La Plata continuano a giocare, a vincere, a parlare ad alta voce. E a morire. Dei titolari ne resta in vita solo uno: Raul. L’ultima di campionato si porta in campo una squadra di ragazzi. Giocano, e vincono. Per la giunta militare, che assiste con le divise tirate a lucido dal palco d’onore, sarà l’inizio della fine.
La storia del La Plata Rugby Club è un toccante intreccio di vita e sport, una semplice storia rimasta inascoltata per trentacinque anni capace di trasmettere tutte le regole fondamentali della vita sociale portatrice di valori educativi fondamentali quali tolleranza, spirito di squadra e lealtà. Una storia vera, raccontata con la passione, l’amore e il rispetto che meritano i grandi eventi della Storia.

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