STABAT MATER

STABAT MATER

di ANTONIO TARANTINO

con MARIA PAIATO

regia GIUSEPPE MARINI

scene ALESSANDRO CHITI    costumi HELGA WILLIAMS
musiche PAOLO COLETTA    luci JAVIER DELLE MONACHE

 

Una sorta di Madonna dei bassifondi, turpiloquiante e bestemmiatrice, la Maria Croce, protagonista di Stabat Mater, ragazza madre, ex-prostituta, ma neanche troppo ex, ora stralunata straccivendola cui l’autore impone un’irrefrenabile e farneticante logorrea, un’incontinenza verbale comicamente oscena, fatta di martellanti interiezioni e ripetizioni, tipiche di chi vuole riaffermarsi ri-dicendo e non riesce più a parlare se non stra-parlando.

Direi che è proprio il linguaggio o, meglio, questa sua singolare rottamazione, una delle ossessioni e cifre stilistiche di Antonio Tarantino. È il linguaggio di quella marginalità suburbana, dannata, condannata e dimenticata dalla Storia.

È la lingua degli ultimi, dei reietti, degli emarginati, degli scarti e detriti della cosiddetta modernità, che non possiedono neanche più una lingua propria (dunque una propria identità) e approdano a una strana, musicalissima e teatralissima pastura linguistica, dove si mescolano il proprio dialetto d’origine (Maria Croce è un’immigrata da un Sud Italia non ben identificato) col dialetto, gli intercalari e le abitudini gergali di una Torino periferica e degradata che Tarantino sa “dipingere” (pittore, prima di diventare drammaturgo) molto bene.

Una lingua d’accatto, dunque, presa in prestito e fatta propria, come nel caso della nostra protagonista, piena di irresistibili storpiature, strafalcioni, ictus verbali e infettata da slogan pubblicitari e televisivi.

La parola in Tarantino, soprattutto in Stabat Mater, il primo dei suoi Quattro atti profani, si fa fisica, estremamente corporea, cruda, viscerale, primordiale, rottamata, sporca e oscena, teatralissima e antiteatrale al tempo stesso, e l’organo fonatorio della protagonista diventa ulteriore orifizio per deiettare rabbiosamente il suo turpiloquio verso un ambiente ostile e avverso, dominato dall’ossessione per il sesso, soprattutto quello maschile, e la promiscua fornicazione, vista o immaginata in ogni angolo di strada, in una sorta di città-bordello dove l’altro e gli altri sono tutti pericolosamente o cuppi o puttane; oltre all’approdo razzista nell’inevitabile guerra tra disperati che vede Maria proferire invettive scurrili contro i marocchini e il loro membro fuori-misura. Il marocchino diventa dunque il nemico da combattere e da cacciare – pretesto e simulacro di altre ben più profonde ferite e rancori – da una presunta civiltà di cui si illude di far parte, ma dalla quale è continuamente respinta.

Un accidentato e musicalissimo percorso linguistico nel quale il comico fa programmaticamente da apripista all’orrore dell’esistere.

Attraverso questo linguaggio Tarantino riscrive e reimmerge nel quotidiano più degradato, sulle rive del Po o della Dora, brandelli di Sacre Scritture, sghembe e laiche Passioni cristiche, surreali Golgota e stralunati Calvari. È già chiaro dal nome della protagonista che Maria Croce è anche la Mater Dei.

A questa rottamazione della parola corrisponde quasi sempre in Tarantino una rottamazione del corpo e della figura. Fuma e beve la nostra Maria che costringe i suoi chili di troppo in sgargianti abiti, secondo lei i migliori del suo trovarobato di stracci, in pantaloni “sancrati, svasati, attillati”, vagheggiando improbabili diete a base di “tagliatelle burro e cacio, due uova frittellate, un Tavernello e via col fumo…” che dovrebbero riportarla a chissà quali antichi splendori, per far morire di invidia “ste mignotte”… “perché io sono ancora un bel figone”.

L’habitat scenico voluto per questo delirante oratorio per voce sola, come recita il sottotitolo del testo, è più simbolico che descrittivo.

Un luogo-non luogo sospeso e rarefatto, una scatola scenica delimitata da fondali-nebbia che attraverso un gioco di luci favorisce un’atmosfera, appunto, sospesa, opalescente e lattiginosa, oserei dire celeste in senso laico o, ancora meglio, tra cielo e terra. Una pedana circolare e in declivio, vagamente circense, un po’ come quelle dove le bestie da circo sono costrette ad esibirsi nei loro patetici numeri, carica di sensi e valenze mistico – simboliche, ma anche di materica concretezza e di sacralità, mai presa troppo sul serio.

Che dire a questo punto dell’interprete di questa edizione di Stabat Mater?

Il teatro di Tarantino necessita di attori fuoriclasse, impegnati come sono a rendere carne e sangue e tradurre in ricercata concretezza e semplicità una scrittura così impervia e funambolica, volutamente priva di punteggiatura e didascalie. Quegli attori speciali che ti fanno ridere mentre stai piangendo, e viceversa.

Questo Stabat Mater vuol essere anche un omaggio all’arte di Maria Paiato, giunta alla sua piena maturità espressiva. Un’attrice fuoriclasse che sa coniugare puro istinto a una formidabile intelligenza scenica.

Giuseppe Marini

 

 

 

 

 

FOTO E STAMPA

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