SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

UN SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

di William Shakespeare, traduzione di Massimo Palmese

con Claudio Santamaria, Vinicio Marchioni, Maurizio Palladino, Stefania Politi
Giorgio Colangeli,
Giordano de Plano, Marta Ferranti, Alessandra Ingargiola
Giandomenico Cupaiuolo,
Benedetto Sicca, Luca Carboni
Giulio Turli, Andrea di Vincenzo, Nina Raia

scene Alessandro Chiti
costumi Helga H. Williams
disegno luci Roberto Loprencipe

regia Giuseppe Marini

 

 

Un manipolo di candidi voyeurs approda al Sogno di una Nottedi Mezza Estate. Hanno bende oculari per lenire i loro occhi affaticati da visioni inquietanti, miraggi, allucinazioni angosciose, ed arrossati per le troppe lacrime, versate anche ridendo.
Hanno una lente gli stralunati ricercatori. Vogliono acuire lo sguardo, sondare, investigare e infine dubitare ancora di più
della validità delle loro percezioni. Una lente per vedere, che funga da specchio per vedersi…
Lenti o specchi che porgono anche al pubblico, perché si prepari a vivere la perdita dei riferimenti cui la favola invita.
Nel Sogno, come nella vita, può accadere di inseguire gli eventi senza riuscire a concatenarli. Può accadere di smarrirsi
nei vari mondi rappresentati e nelle varie sottotrame, nel vertiginoso alternarsi di registri (tragico, comico, lirico, favoloso)
che compongono un complicato, quanto affascinante, congegno drammaturgico. Un caleidoscopio di testualità, un dedalo
di scritture che fa dell’antinomia e della contiguità dei contrari il suo statuto originalissimo. Rivoli di senso rovesciati e simmetrie inverse per un musical discordo che vuol formalizzare l’informe, che armonizza Ordine e Caos.
Una commedia inciampata nella tragedia? O una tragedia mascherata da commedia? O ancora due facce della stessa medaglia
che litigano e si contendono il primato? Il Sogno è una favola delicata e terribile, sensuale ed efferata, piena di latenze, simboli inquietanti, tossicità acide, abilmente nascosti dietro i divertimenti, le cortesie, il gioco degli equivoci, le magie, gli incantesimi con i quali gioca a imbellettarsi e ad apparire frivola. Ma ogni tanto il belletto si disfa e lascia intravedere sotto la cipria grumi di tormento, lividi e cicatrici non rimarginate, abissi di sofferenza dell’uomo e poeta Shakespeare, tutto il suo sentire l’Amore, la Morte, la Religione, l’Arte, il Teatro. L’Amore è Morte per Shakespeare e Eros copula col suo opposto, Thanatos, lungo tutta la favola.
Marce nuziali di sinistra premonizione ci introducono in una Atene bianca e lattiginosa, un mondo ingessato di lugubre
opalescenza, di amori strazianti ben protetti da guanti bianchi, di amori smaltati ma corrotti, di violenze hyper-clean. Qui si preparano le nozze di Teseo e Ippolita, la coppia di reggenti che ritroviamo in versione notturna e megatonica nei panni
di Oberon e Titania, sull’altro palcoscenico, non meno inquietante, del Sogno: il Bosco incantato. Luogo della nostalgia,
dove si torna a cercare quanto è andato perduto, la passione, l’infanzia, e quanto resterà ugualmente introvabile: l’Amore.
Un Bosco-Teatro, luogo della Prova per chiunque vi precipita.
Tutte le sue creature, a cominciare da Oberon e Titania, vacillano, zoppicano e tentano voli accidentati verso un amore irraggiungibile: metafora straziante di un’insondabile tensione alla Caduta.
L’insidioso contenitore del Bosco incrocia i destini di quattro giovani innamorati in età da prima comunione, corazzati di retorica
e di una mimica copiata ai loro genitori, e offre loro uno specchio che li pone uno di fronte all’altro come coppie inconsuete,
come doppi, affinché conoscano le loro ambivalenze erotiche, altrimenti inconfessabili.
Ma il Bosco è anche il luogo del Meraviglioso e della Bellezza. La creatura silvana più toccata dalla Bellezza, quanto dalla
Caduta, è Puck. Come Amleto, il mio Puck vive nel nome del padre, sempre alla ricerca del suo amore e della sua approvazione.
Se da un lato Puck, al pari di Ariel, accetta di mettersi a servizio della volontà di Oberon, facendosi carico dei desideri
e delle angosce degli uomini, dall’altro, in quanto figlio prediletto, tende ad elevarsi, a emulare il padre, persino a disubbidirgli.
Per questo Puck cade. Da sempre cade e si rialza, perennemente in bilico tra essere e non essere, sorreggendosi su una sola gamba. Il contraltare comico del Sogno, non meno denso e problematico, è costituito dalle rocambolesche avventure di quattro comici, chiamati a rappresentare una recita la notte del giorno delle nozze di Teseo e Ippolita. Questi attori sono qui scolari
di una scuola senza tempo, alle prese con l’apprendimento elementare del vivere e del recitare. Una scuola dove ci si diploma
in buoni a nulla (abilitati al nulla). L’asinità dello scolaro, dunque, è la lavagna nera sulla quale tutti i disegni sono ancora
possibili e passibili di cancellazione e riscrittura. Bottom, il più divino dei nostri buoni a nulla, che non a caso cita San Paolo, pur distorcendolo, una volta ricevuta la graziachiamata di diventare per una notte asino in carne ed ossa, nella recita a Palazzo inaspettatamente porta in scena la Morte, rappresentando il duplice suicidio di Piramo e Tisbe, che instilla
negli attoniti spettatori la coscienza tragica.
Anche nel Sogno, dunque, come in Romeo e Giulietta, Shakespeare fa scendere un ultimo, definitivo silenzio che vanifica
lo scontro di tante parole sull’esistenza, sulla nostra identità… uno scontro inane, essendo la parola inadeguata a illustrare il
sogno di vivere. Solo al momento della Morte comprendiamo di aver vissuto differenti livelli d’irrealtà, di aver visto sempre
e solo rappresentazioni di un etereo nulla. Consola, semmai, la gioia del ricominciare, del rinascere e la speranza ultima di essere visti e considerati almeno dal grande occhio della Luna che in questo Sogno non ci ha mai abbandonato.
A lei, forse, il compito di curare le immedicabili e invisibili ferite provocate dagli aghi di sofferenza con cui il Sogno punge dove più fa male.

Giuseppe Marini

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