LES BONNES
LES BONNES
(le serve)
di JEAN GENET
FRANCA VALERI ANNAMARIA GUARNIERI
con
Patrizia Zappa Mulas
traduzione di Franco Quadri
uno spettacolo di
GIUSEPPE MARINI
scene
Alessandro Chiti
musiche
Marco Podda
costumi
Gianluca Falaschi
disegno luci
Gigi Ascione
Les bonnes trae spunto dal caso delle sorelle Papin, che negli anni ’30 sconvolse l’opinione pubblica francese: due domestiche a servizio presso una ricca e facoltosa famiglia borghese uccisero atrocemente la loro padrona e sua figlia. Nel testo di Genet le sorelle Claire e Solange Lemercier amano e odiano la loro padrona (Madame) e sognano di ucciderla. Ogni sera, quando la padrona è assente, in un perverso gioco delle parti in cui a turno una prende le sembianze di Madame, l’altra quelle della serva-sorella, inscenano la stessa cerimonia il cui epilogo è proprio l’assassinio della Signora. Poco dopo veniamo a sapere che una di loro, Claire, ha spedito delle lettere anonime alla polizia che hanno condotto in prigione Monsieur, l’amante di Madame. Una telefonata le informa però che Monsieur è stato rilasciato per mancanza di prove e rimesso in libertà provvisoria. In seguito a questa sconfitta e temendo di essere scoperte, Claire e Solange decidono di uccidere veramente Madame con una tisana avvelenata. Ma visto che anche quest’ultimo tentativo fallisce le due bonnes decidono di farla finita e di eliminarsi attraverso l’ultimo rituale suicidio-omicidio: una di loro berrà il tiglio avvelenato che si è fatto servire dalla sorella.
Un teatro bardato a lutto per celebrare il proprio sontuoso funerale, l’ultima cerimoniosa auto-rappresentazione, l’ultima festa. Si è fatto installare degli specchi per vedersi morire preziosamente e contemplare il proprio definitivo massacro lirico tra gli intarsi nero-rosso-oro di un barocco post-moderno.
Un teatro due volte teatrale, che pone se stesso e le sue possibilità al centro della propria indagine. Un teatro non più abitato da personaggi reali ma da figure allegoriche, apparenze fantasmatiche, images o reflets, che dispiega un’architettura verbale straordinaria e piena di bagliori non per raccontare storie ma de-costruire mitologie.
Un teatro che chiama a raccolta i suoi antichi fasti e i più diversi modelli drammaturgici, dalla Messa all’Opera Lirica, per travestirsi e metamorfosarsi in un gioco spinto fino ai suoi limiti estremi, dove incontra l’assurdo e la commedia prima di inabissarsi nella propria negazione.
Un teatro costantemente in lotta con se stesso quello di Jean Genet.
Les Bonnes sono tornate per parlarci di teatro.
Le ritroviamo invecchiate, ancora più illividite e consumate dalla devozione rovesciata in odio per la loro Signora, ma fiere della loro degradazione e decise a viverla fino in fondo, fino al punto in cui si converte in apoteosi. Ladre dei gesti e del linguaggio, dei vestiti della loro padrona, approntano ogni sera il loro teatrino di morte, carico di riferimenti religiosi rovesciati e pervertiti, in cui si recita l’assassinio di Madame. Nel loro deambulare insensato nella camera-mausoleo-teatro della Signora, nel belletto sfatto, nell’odore muffoso dei loro corpi e delle loro sottane riconosciamo l’operosità della morte al lavoro. Monache sordide, patetiche baccanti abitate e possedute dal Dio-Madame, grottesche meninas a caccia di estasi, sordide erinni affamate di Bellezza, scassinatrici di beaux languages, accanite lettrici di cronaca nera e dei vangeli, dipingono paesaggi letterari dove il sacro e il blasfemo si coniugano e si pervertono in una mitopoiesi da fotoromanzo, nel sogno di un nuovo paradiso tra le palme e il sole di una Guyana da fumetto esotico. Il Bagno Penale diventa luogo dell’Essere, l’approdo mitico dove finalmente Crimine e Santità si congiungono nella luce redentrice della Grazia.
Madame, non meno sognatrice delle sue bonnes e posseduta dalla sua delirante performance du vide, gioca a impersonare varie forme di una femminilità in esubero, passando in rassegna gli episodi interni a due poli opposti e contigui di Santa e Puttana. Lei è l’icona da abbattere dopo esser stata canonizzata e “innalzata in un tabernacolo” perché colpevole di gioventù, per l’unico peccato di essere buona, bella, dolce.
Una favola nera, in bilico tra l’angoscia di esistere e la corazza dell’ironia, costruita sulla forma mista di un realismo lirico e allucinato, dove reale e irreale si confondono in un un’atmosfera onirica, da incubo magico.
Una favola sul teatro che osa vestirsi da passato per rivolgersi al presente e che non teme di voltarsi indietro per guardare più avanti.
Una favola, infine, il cast straordinario che sintetizza e rivela le ragioni più profonde dello spettacolo.
Les Bonnes sono, nella loro più intima essenza, attrici, “fino all’ultimo istante”. Occorrevano due mostri sacri del nostro teatro: Franca Valeri e Annamaria Guarnieri (affiancate, con evidente contrappunto generazionale, da Patrizia Zappa Mulas nel ruolo di Madame) a ricoprirne i ruoli. Riunire e far dialogare tra loro diverse esperienze, diversi “teatri” e dirigere questa dialettica verso Genet è forse il sottotesto principale di questa operazione.
Un Genet di cui ho scelto di non accentuare i riferimenti politici e (omo)erotici della sua poetica per indagarne con meno “ingombri” le inquietudini metateatrali, nel tentativo di sdoganare un’avventura drammaturgica bersagliata da troppe canonizzazioni e di far luce sul mistero di un teatro che si dissipa nel suo farsi. Un teatro che arriva a distruggersi celebrandosi per rientrare nella culla nera del silenzio da cui è emerso, dopo una breve e sublime vacanza d’apparizione.
Giuseppe Marini